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Concorsi

In questa sezione si trovano in maniera integrale i racconti segnalati nei concorsi indetti dall'Associazione

Concorso

Niccolò Tornabuoni

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Primo classificato:

Un pomeriggio, di Cristiana Mameli

Per amore si fa tutto.

Io lo capii presto, quando avevo solo undici anni.

Era un pomeriggio afoso di inizio estate e, come facevo da qualche tempo, mi ero recato a casa della mia nonnina per tenerle compagnia e fare qualche commissione per lei.

Mi piaceva procurarle ciò di cui aveva bisogno. Ogni volta che andavo a trovarla mi sentivo grande, importante, persino più alto, e lei lo sapeva. Così, quando mi vedeva tornare con ciò che aveva chiesto, mi accoglieva con una tazza di "mate" e un piatto di biscotti appena sfornati.

Quel pomeriggio la mia "abuelita" aveva un’aria stanca, e l’espressione dolce del suo viso non riusciva a nascondere una vena di tristezza.

“Va tutto bene?”, le chiesi.

“Ma certo, Rafa! Che ti viene da pensare!”

“È che mi sembri triste…”

“Oh, lo sai: alla mia età se non ci si lamenta un po’ si sta peggio. Ma vuoi fare una commissione per la nonna?”

Prese il suo borsellino di stoffa prima ancora che rispondessi, e mi mise in mano una banconota da cinquanta pesos, che io guardai con meraviglia. Non mi aveva mai dato tanto per le spese di cui mi incaricava.

“Sai la tabaccheria di Manuel Garrera? È quel negozio vicino al porto. Ho bisogno che chiedi al signor Garrera di darti una pipa e del tabacco buono, intesi?”

La fissai con occhi grandi, colmi di stupore.

“Nonna, tu fumi?”

“A volte, poi ti spiego. Ora va’, che i biscotti ti aspettano.”

Il negozio di Manuel Garrera si trovava dalla parte opposta del paese, vicino al porto. Andarci di corsa mi sembrò un buon modo per ridurre la distanza.

“Ragazzo, ti occorre qualcosa?”, mi chiese un uomo dalla folta barba nera, appena varcai la soglia della tabaccheria.

“Vorrei una pipa. E del tabacco buono.”

“Uhm, non sei troppo giovane per iniziare a fumare?”

“È per la mia abuelita.”

“Claro que sì, me lo dicono spesso. Comunque non sono tuo padre…” Diede un’alzata di spalle. “Guarda qui.”

Aprì una grande scatola foderata di panno rosso: conteneva pipe di tutte le fogge e misure.

“Se permetti, ti consiglio questa. È perfetta per iniziare.” Mi mostrò una piccola pipa dritta, di un marrone vivace. “E per il tabacco… Ti faccio provare il Lakeland Dark. È una miscela speciale. Arriva dalla Virginia. Se devi fare una cosa, meglio farla bene, non ti pare?”

Annuii, e dopo poco ero fuori dal negozio con due pacchetti stretti sotto il braccio. Ripartii di corsa così come ero venuto, con le monete del resto che mi tintinnavano nella tasca posteriore dei pantaloni.

La nonna mi stava aspettando in cucina, con due immancabili tazze di mate e i biscotti che mi aveva promesso. Le porsi trionfante i pacchetti e il gruzzoletto di monete.

“Sei già tornato! Siedi, prendi un biscotto.”

Non me lo feci ripetere.

“Sai, tuo nonno amava fumare la pipa” mi disse dopo aver dato un’occhiata al contenuto dei pacchetti. “Ogni sera, dopo cena, io preparavo il mate e lui si predisponeva a gustare un po’ di tabacco. Era il nostro rito. Io sorseggiavo la mia tazza di mate e lui, con ritmo lento e regolare, mandava nell’aria piccoli sbuffi sottili, mentre il giradischi trasmetteva la splendida voce di Amália Rodrigues.” Sospirò. “Mi manca tanto.”

Mi alzai per abbracciarla.

“Rafa, vuoi fare una cosa per nonna?”

Annuii. Avrei fatto di tutto per consolarla.

“Ti va di fumarla insieme a me?”

Accese il giradischi in salotto e riconobbi subito le note dolenti tipiche del fado. Quindi tornò in cucina, e la vidi caricare la pipa, pareggiare con cura il tabacco in superficie e accendere la pipa con un fiammifero.

“L’ho visto fare a tuo nonno centinaia di volte”, mi spiegò.

Con calma, diede un paio di boccate, poi mi passò quel piccolo oggetto per me pieno di fascino. Cercai di imitarla, e feci un tiro profondo. Sentii il palato pervaso da un gusto amaro, forse troppo forte per un accanito divoratore di biscotti come me, ma cercai di non badarci. Alle narici arrivò invece un distinto aroma di terra, legno e cuoio, un odore intenso di affumicato, che rimandava a una giusta ricompensa dopo una dura giornata di lavoro.

Mentre il fado risuonava per il salotto e la cucina, la nonna e io continuammo ad alternarci, aspirando ed espirando lentamente, guidati dalle note.

“Mi sembra quasi che sia qui”, osservò in lacrime la mia abuela. E non dovette aggiungere altro.

Non dimenticherò mai quel pomeriggio. La nonna se ne andò per sempre appena un mese più tardi. E mi piace pensare che ora sia lassù, da qualche parte, con il nonno. Li immagino seduti davanti a due tazze di mate, intenti a fumare insieme mentre Amália Rodrigues canta per loro.

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Io lo so bene come ci si sente ad abbracciare il tutto.

Una notte di plenilunio, con le cicale intente a frinire, il signor Porcu e il signor Serra intenti a fumare, l’aria serena del vespro ancora calda dell’afa del giorno, raffreddata solo dalla stasi degli uomini che contemplano il mondo sul finir del lavoro; in quel dì di un’estate vicina all’autunno io mi trovavo assieme agli altri ad attendere che una ad una ogni spirale e voluta di fumo lasciasse per sempre la pipa.

Eravamo emozionati, si capisce, all’idea di venire al mondo per davvero: alle nostre spalle un lungo e umido canale oscuro che alcuni di noi chiamavano ‘abisso’ si attivava a impulsi regolari producendo un vento che ci risucchiava nel profondo del suo incavo.

Ma noi ci tenevamo forte e stretti l’un l’altro in attesa che ‘il grande sole’ si accendesse e quel fuoco che ci bruciava tutti s’infiammava in concomitanza con la grande tempesta alle nostre spalle, tanto che i più arguti di noi avevano messo in relazione i due fenomeni per affermare che non vi è fuoco senza aria.

Io non ero pratico di queste verità, attendevo soltanto che nell’istante di un passaggio di fiamma il mio spirito si elevasse verso la luce e diventasse un tutt’uno con essa.

Un po’ com’era successo al mio amico cipriota, il quale un attimo prima di venir avvolto di passione urlò a squarciagola: «guardatemi tutti, sono un tabacco pregiato e sto per ricevere l’illuminaz…» e la parola gli si strozzò in gola.

Si chiamava Latakia e non ce n’erano tanti come lui tra di noi, la maggior parte era costituita da tipi più comuni, come me, e se qualcuno ti chiedeva: “mi scusi lei da dove viene?” La risposta veniva da sé: “Virginia e lei?” – “Anch’io!”.

Non vedevo l’ora di raggiungere il mio amico, sperando che si fosse salvato dall’abisso, ma per un lasso di tempo che a noi sembrò un’eternità il fuoco cessò e anche il vento alle nostre spalle smise di soffiare, restituendoci un mondo immobile e grigio.

Avevamo paura, ci domandavamo cosa stesse accadendo, o meglio, cosa non stesse accadendo, e avvertivamo su di noi sensazioni nuove e in quanto nuove io non potrei descriverle, ma i più colti accanto a me raccontavano di umidità e di cenere e di un destino di morte senza speranza.

Da fuori ci giunsero ovattate le parole del signor Porcu e del signor Serra: «non stai fumando bene Lellé.»

«Come?»

«Non si fuma così, non è una sigaretta, aspiri troppo forte e troppo in fretta, non fai riposare il tabacco e ti si è pure spenta, riprova insieme a me.»

Non capivo cosa stessero dicendo e ancora non sapevo chi fossero i due signori, ma un attimo dopo qualcosa la compresi perché vidi avvicinarsi la fiamma.

«Oh ragazzi ci siamo!» Urlavano i miei compagni!

Alle nostre spalle il vento giungeva più leggero adesso e anche il fuoco sembrava bruciare a metà della sua intensità, ma era inebriante lo stesso e in un attimo quel calore mi avvolse tutto e smisi di essere quello che ero.

Sentivo ribollire ogni molecola di cui ero fatto e mentre mi smaterializzavo per diventare vapore tutto il mio pensiero era rivolto a Latakia e al mondo che ci aspettava.

Urlai anch’io con tutto il fiato di cui ero capace a mano a mano che la luce m’invadeva, ma in un attimo fui risucchiato, senza potermi appigliare a nulla, e venni trascinato nell’abisso: gli ultimi sguardi che vidi furono quelli di compassione di chi fu catapultato verso l’alto e quelli di terrore di chi come me veniva inghiottito dalle tenebre.

Così finisce, pensai.

Il tempo sembrò fermarsi, ogni mio compagno mi volteggiava attorno e, dentro di me, ognuno fuso in uno spazio che non sapevamo comprendere dove ogni punto di noi sembrava coincidere col punto di un altro, in una miscela informe e incolore di panico e terrore.

Poi accadde qualcosa d’insperato: la luce ci inebriò e anche noi fummo premiati, come gli altri, più degli altri! E io divenni uno splendido anello di vapore che si librava verso l’alto.

In quell’istante vidi ogni cosa e ne seppi il nome, e tutto compresi: vidi due signori intenti a fumare e dalle loro pipe e dalle loro bocche generarsi i miei compagni, e ad uno ad uno li salutai, vidi il patio all’esterno della casa e le sedie a dondolo dove i due uomini si cullavano, poi un tavolo, del vino e due bicchieri, la luce finta della casa e quella vera e tenue della luna, vidi gli alberi e la montagna, immaginai un sole dietro quella montagna perché vidi il tramonto e poi le prime stelle nella volta del cielo, ero commosso e più mi commuovevo più mi espandevo.

Da un momento all’altro avrei abbracciato il reale, ma prima che ciò avvenisse ci fu il miracolo: un altro anello, perfetto, mi penetrò tutto sino a incatenarsi a me e insieme volammo verso l’infinito scambiandoci per un tempo brevissimo tutto l’amore del mondo, fino a che non divenne così grande, il nostro amore, da confondersi nell’aria e sciogliersi nel tempo e ci riconoscemmo: lui era Latakia, io un semplice Virginia, e siamo stati ottimi compagni prima di fonderci nell’eterno.

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Terzo classificato:

Tracce di fumo, di Marcello Salvi

Camminare nella gelida notte di Mechelen, di questo aveva bisogno; uscì dall’albergo, la pipa carica, il pollice sul fornello per non far uscire il tabacco, curva, odiava i guanti e con quel freddo avrebbe dovuto tenere le mani in tasca il più possibile, capiente, aveva molto a cui pensare, scavalcò il ponticello sul canale, accese, la fiammata illuminò l’angolo tra la piazzetta del Vismarkt e la Bejinstrasse, infilò le mani in tasca e s’inoltrò nella via lunga e stretta che conduceva alla Cattedrale, la scia di fumo che si lasciava dietro aleggiava nella luce giallastra dei lampioni, non impiegò molto a raggiungere il Dyle, si fermò al ponte, sull’altra sponda nella luce lunare si stagliava la sagoma dello stadio, soffiò la cenere nel silenzio neppure rotto dallo scorrere lento del fiume e lo percepì: l’odore del fumo del tabacco che aveva appena finito di bruciare. Un odore pungente, caratteristico, che era rimasto nell’aria e che stava rapidamente svanendo, un click scattò nella sua testa: l’odore!

Con le mani in tasca tornò sui suoi passi, la mente girava cercando di ingranare quell’idea che gli era balenata per un istante, attraversò la cittadina a passo deciso, guadagnò l’hotel nella metà del tempo, non poteva fare nulla al momento, dormirci su lo avrebbe aiutato?

Dormì male; alle 8 uscì, si sedette su una panchina della Onzelieve di fronte alla principale tabaccheria attendendo che aprisse, fumando nervosamente, appena vide la saracinesca sollevarsi nascose la pipa nella tasca del giaccone senza spegnerla ed entrò, si piazzò dinnanzi allo scaffale in fondo al negozio dove erano disposte in bella mostra decine di confezioni variopinte. Semois a perdita d’occhio, la titolare lo avvicinò.

«Posso aiutarla? Cosa stava cercando?»

«Non lo so, ma non era Semois», uscì senza dire altro, caricò la pipa senza preoccuparsi di svuotarla della fumata precedente, si diresse verso il Posto di Polizia.

Un Ispettore Francese in visita in Belgio non veniva visto benissimo, era sottoposto a sguardi guardinghi, andò dritto verso l’ufficio del suo amico.

«Peter, un buon tabaccaio?», Peter Van der Broek alzò la testa dalle scartoffie, lo fissò con sospetto, non lo aveva mai visto comprare del tabacco, aveva sempre la sua busta in tasca.

«Sulla Onzelieve»

«Già provato», si sentì rispondere, «Mi serve più fornito», ebbe la certezza che quella ricerca era connessa all’indagine in corso, non disse nulla, sapeva che il suo amico quando ragionava non andava interrotto.

«Anversa o Bruxelles, qui non troverai altro».

Impiegò mezzora a coprire i due chilometri che lo separavano dalla Stazione di Mechelen, lesse l’orario, un treno proveniente da Lovanio e diretto ad Anversa si sarebbe fermato entro dieci minuti, fece il biglietto e arrivò al binario mentre il treno entrava in stazione; quindici minuti senza fermate per Anversa.

Conosceva la città, esattamente sulla piazza di Anvers Central c’era un ottimo tabaccaio, si mise a fissare lo scaffale ricolmo di scatole colorate, parlò con il titolare che fortunatamente si dimostrò più competente della media e uscì con cinque latte di tabacchi a lui ignoti, da ormai molti anni era diventato monotematico, dopo una giovinezza passata a sperimentare aveva trovato il suo “pane quotidiano” e non lo aveva più abbandonato ma il suo olfatto non si era atrofizzato, aveva percepito quelle caratteristiche note pungenti di perique addolcite dal cavendish sul luogo del delitto.

Tornò al posto di Polizia e si affacciò nuovamente all’ufficio di Peter.

«Mi servono le chiavi della tua casa», Peter lo guardò stupefatto.

«Problemi con l’albergo?»

«Devo fumare».

«Emile che diavolo sta succedendo?»

«Credo di poter identificare l’assassino ma ho bisogno di fumare in un ambiente sterile, non contaminato», Peter era abituato a certe stranezze, si limitò a dargli le chiavi.

Tornò in hotel, prese tutte le pipe che aveva portato; la casa di Peter era su tre piani, tornava utile, aprì la prima latta in salotto, caricò e accese, fumò dieci minuti, uscì e chiuse la porta lasciando la pipa sul mobile dell’ingresso, in cucina altra pipa, altra latta, altri dieci minuti, chiuse la porta e lasciò la pipa insieme all’altra, ripeté la procedura in tutte le stanze della casa. Attese nervosamente un’ora sul pianerottolo dell’ultimo piano, tornò in salotto, annusò l’aria, annusò anche le altre stanze, sorrise.

Quando entrò nell’ufficio di Peter pose una latta di tabacco con l’etichetta blu sulla scrivania.

«L’assassino fumava questo tabacco, controlla se tra i congressisti c’è un fumatore di pipa e perquisisci il suo bagaglio», Peter prese la latta in mano e lo fissò, «Quando siamo entrati nella stanza dove c’era il cadavere l’ho sentito appena entrato, l’odore, ma non ci ho fatto caso, sono abituato a entrare in stanze che sanno di pipa, ma lui non era un fumatore quindi a fumare deve essere stato qualcun altro, l’odore era ancora percepibile, quindi la stanza era stata chiusa subito dopo averci fumato dentro, dall’assassino».

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Menzione d'onore

Dipita di Nicoletta Morbioli

Nonno Fausto carica il tabacco della sua pipa a piccoli pizzichi, pareggiando con colpi di pollice la superficie. La accende, aspirando con frequenza ma dolcemente.

Riaccende.

Fuma con boccate lente, cadenzate, tranquille. Poi mi guarda il pancione ed esclama: - Eh, è quasi ora. Tra poco divento nonno un’altra volta! -.

E sorride soddisfatto, abbandonandosi al ritmo placido della sua pipa.

Questa famiglia è diventata la mia, da quando sono qui in Italia.

La sala parto si trova in fondo ad un lungo corridoio piastrellato di mattonelle azzurre.

- È l’ultima stanza in cui entra una gestante ed esce una mamma - mi dice l’ostetrica illuminata da un sorriso. Persone intorno a me si parlano e si affannano. La tua frequenza cardiaca è visualizzata su uno schermo e queste rilevazioni, assieme a quelle che riguardano le mie contrazioni uterine, vengono registrate istante per istante su carta millimetrata.

- Tum! Tum! Tum! - pulsa il tuo cuore. Ho tanta sete e sono accaldata come durante la traversata nel deserto prima della Libia. L’ostetrica mi bagna le labbra con delle garze inumidite d’acqua fresca. Mi appoggia una mano sul ventre e cerca di rassicurarmi mentre tu dai le ultime brucianti spinte prima di venire al mondo. Urlo. Non solo di dolore, ma anche di rabbia. Di una rabbia che mi lacera più delle forti contrazioni, per quell’odore di sangue e di sudore che mi ricordano il campo dove è stata la violenza e non l’amore a mettermi in grembo quel seme che ti ha generato.

Ti avvolgono in un panno caldo e ti portano via per lavarti e vestirti.

Sono sfinita e mi abbandono in un sonno confuso...

- Il tabacco non si brucia. Si gusta. Occorre darsi il tempo…il tempo per tutto -. Poi la voce rassicurante di nonno Fausto si fa meno nitida e scompare nel fumo leggero che profuma dell’aroma legnoso di tabacco.

Ad un tratto la porta si apre e una lama di luce fende il buio, facendomi schiudere appena gli occhi. In silenzio l’ostetrica ti appoggia accanto a me, infagottata in una coperta bianca, da cui spuntano il tuo faccino e le tue mani chiuse a pugno. Ti avvicino e comincio a odorarti, poi le mie labbra sfiorano la tua morbida pelle e mi viene spontaneo accarezzarti con piccoli baci. Sai di buono ed è bello sentire il tuo calore attraverso la mia camicia di flanella rosa.

-Il fumo della pipa non si aspira: lo si assapora tra palato e naso…Con calma…Impara a goderti le piccole gioie che la vita ti riserva…- sento risuonare nelle orecchie.

L’infermiera accosta la tua testolina pungente al mio seno: - Prova ad allattarla - mi sprona.

È allora che apri i grandi occhi color caffè che mi scrutano seri.

Poi le tue dita mi cingono il pollice e ti ci aggrappi. Tu sei lì per me ed io per te. Come il fumo lento della pipa di nonno Fausto che si alza e svapora, il dolore e la rabbia piano piano si allontanano, lasciando il posto ad un sentimento nuovo, mai provato.

- Hai deciso il nome? -

- La chiamerò Dipita, che nel mio Paese, la Nigeria, significa "portatrice di speranza" -.

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Menzione d'onore

Re-Evolurtion di Jenny Carboni

Ormai si è fatta notte. Non so bene neanche da quanto tempo.

Ormai c’è quasi un mescolarsi di tutto in questa prigione.

Delle tempere fresche in un quadro finito e una mano dannata a distruggere i tratti naturali del tempo.

Visioni. Caleidoscopio disordinato.

La notte e il giorno, senza spezzarsi scorrono insieme; non c’è più nulla di quella linea sottile che delimita un orizzonte d’esistenza.

Accade qui dentro, come là fuori.

Il male e il bene hanno azzardato una fusione in quest’era dispotica di reami dorati che cascano, come castelli di carte che non hanno letto il futuro, plebe disperata, mezzi artisti goduriosi del loro ego, di imprenditori senza né arte né parte.

Poi ci sono io, solerte e indenne da questo disfattismo sociale.

“State freschi” sembra vogliano dire i telegiornali.

I primi giorni, anche io ero dentro il tunnel di questa abbazia di gente confusa e straziatamente impaurita da un presente da terza guerra mondiale, e da un futuro che si vede grigio, anche nella nostra immaginazione.

Immagini bigie da dopo guerra dei nostri libri delle elementari.

Elementari dovevamo rimanere. Ma il potere disseta e sfama. Per poi farti perire.

Arriverà il giorno in cui correremo tutti in pigiama per strada, avremo paura di sfiorarci, ma ci vorremo amare, amare alla follia di sentimenti rinchiusi con noi in quattro mura che divorano le nostre anime.

Il tempo qui dentro scandisce i pensieri, le ansie e le turbe. Le voglie d’amore. Le sfoglia una ad una come un album di una vita intera a cui non avevi mai dato uno sguardo… e ora, è lì davanti, e ci costringe ad assistere alle nostre follie, alle nostre paure.

A quanto abbiamo perso, e a quanto ci vogliamo tenere.

Tengo stretta una lista nella mia mente, dei passi in avanti che avevo compiuto, nella mia rinascita sofferta e voluta, e non sarà questa clausura a farmeli scappare nei meandri del mio essere.

Musica sinuosa che mi salva, mi onora, mi ama, mi porge la mano.

Ah Nina Simone, suona lei ora nelle note di questa stanza; grande combattente.

Revolution! che canzone!

And now we got a revolution… Cause i see the face of things to come…

the daily struggle just to stay alive…Of all the evil that have to end…

Donna. Nera. Lontano 1969. Parla di rivoluzione, evoluzione, lotta quotidiana, cambiamento! E qui sfida il grande Jhon Lennon. Quando le lotte si suonavano e si cantavano, a forza di note e di rime, e noi qui, dai balconi un po' proviamo a fare le nostre piccole battaglie di sopravvivenza interiori.

La solitudine, fa parte di questa guerra.

Quante volte le sue note mi hanno aiutata in questi lunghi inverni.

Quante parole ho scritto, ho sognato e poi realizzato.

Nello sfogliare queste giornate, ho riesumato dei vecchi scritti.

30 marzo 2014

A volte vorrei essere come i vecchi cantanti blues, come i vecchi poeti;

una notte buia e afosa, un sigaro e due dita di scotch,

ubriacati dalla vita, e scrivere,

sbattendosene del giudizio del compaesano, e alla luce del sole,

d’essere additato come quel vecchio pazzo poeta che scrive rudemente la verità e ne fa la sua corona.

Sono una donna, devo tenere il mignolo all’insù mentre bevo le mie dita di scotch dentro un tambler affogando i miei sanguigni pensieri, e farlo in segreto.

Oggi è 28 marzo 2020

Sei anni dopo.

Segregata in casa. Oggi vorrei dire ai compaesani che poco mi importa del loro giudizio e che sto bevendo il mio rum, sto eroticamente facendo sciogliere il cioccolato fondente tra le mie labbra e oh sì… a occhi chiusi mi gusto il mio sigaro… mi gusto la mia libertà, la mia solitudine, il tempo che si ferma dentro me.

Accolgo questo tempo sospeso come una nuova rinascita, re-evolution. Rivoluzione Evoluzione. D’altronde, è come se fossero questi miei momenti da vecchia cantante blues, da scrittrice dannata, alcool vizio e ribellione, ma, solo, semplicemente, esteso nel tempo…

Quando le gabbie apriranno, niente si rimandi, niente si annulli, che la paura non ci fermi, se urlare vogliamo, urlare dovremo, se il vento ci scompiglierà i capelli con esso dovremo librare. Se amare vorremo, amare dovremo. Questa guerra non ci ha fatti forse pensare che all’amore, e solo all’amore, ci dovremo abbandonare?

Ci liberi Signor Presidente, sto per finire le scorte, mi rimane solo la musica…

Secondo classificato:

Il fumo a spirale, di Davide Madeddu

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